Fine dello stato di emergenza, il bilancio in provincia di Lecce
Si accentua il divario sociale e si allarga la forbice tra ricchi e poveri. Ci sono più risparmi e più imprese, dopo due anni di pandemia. Alcune aziende salentine hanno saputo reagire alla crisi, altre si sono dovute arrendere.
Si accentua il divario sociale e si allarga la forbice tra ricchi e poveri in provincia di Lecce. Ci sono più risparmi e più imprese, dopo due anni di pandemia, ma l’andamento ha favorito le classi più agiate. È quanto emerge dal nuovo studio condotto dall’Osservatorio Economico Aforisma, diretto da Davide Stasi.
In provincia di Lecce, le imprese attive sono aumentate di 1.817 unità: sono 65.760 (erano 63.943 il 29 febbraio 2020). La crescita è stata del 2,8 per cento. Ci sono anche 7.374 addetti in più: sono 186.502 (erano 179.128 il 31 dicembre 2019). L’incremento è stato del 4,1 per cento.
I risparmi custoditi negli sportelli bancari e postali sono saliti di 2,7 miliardi di euro: da 12,5 miliardi a 15,2. La crescita è stata del 21,3 per cento, perché il futuro è apparso sempre incerto e, per lungo tempo, c’è stato lo stop alle rate di pagamento dovute per le cartelle fiscali.
Gli investimenti finanziari sono aumentati di 193 milioni di euro: da tre miliardi 684 milioni di euro a tre miliardi 877 milioni. L’incremento è stato del 5,2 per cento.
I prestiti sono stati incoraggiati dai decreti che si sono susseguiti durante la pandemia. I finanziamenti sono aumentati di circa mezzo miliardo di euro: da 8,1 miliardi a 8,6 (vale a dire, +6,1 per cento). L’ammontare delle sofferenze bancarie, invece, risulta in calo, soprattutto grazie alle misure di sostegno alle imprese.
«È questo il bilancio alla fine dello stato di emergenza – spiega Davide Stasi – Il primo anno (il 2020) è stato altalenante, in quanto si sono alternati mesi di lockdown con periodi di rapida ripresa, mentre il secondo anno (il 2021) è stato così positivo da poter compensare il calo del prodotto interno lordo (Pil) registrato nell’anno precedente. La diffusione del Covid-19 ha cambiato gli stili di vita, con ripercussioni sulla produzione e sui consumi, sull’economia e sulla finanza. Alcuni settori, infatti, sono stati colpiti più di altri, come il turismo e il commercio di vicinato, ma anche l’industria automobilistica o dei macchinari è stata penalizzata. Altri settori, invece, hanno registrato una sorprendente crescita, come ad esempio l’e-commerce, l’agroalimentare, la sanità e l’assistenza sociale».
«L’emergenza sanitaria – aggiunge Stasi – ha provocato cali di ordini e di fatturato, ma non per tutti: alcune imprese esportatrici, ad esempio, sono riuscite a fare meglio del passato, altre, invece, sono state in grado solo di contenere gli effetti della recessione. Certe aziende hanno dovuto trasformare la propria struttura organizzativa, riducendo anche le risorse umane oppure hanno cambiato le modalità di approvvigionamento, produzione e distribuzione dei loro prodotti. Nonostante alcune attività siano rimaste aperte, la gran parte ha dovuto ridurre la produzione con drastiche conseguenze sulla catena delle forniture, che in qualche caso, si è persino interrotta. Dai ristoranti ai bar che potevano lavorare solo con l’asporto e il servizio a domicilio, dalle palestre alle piscine temporaneamente chiuse, passando per cinema e teatri, costretti, a più riprese, a sospendere la loro programmazione. In seguito alle crescenti misure restrittive, alcuni imprenditori hanno dovuto sostituire i propri fornitori per poter andare avanti, mentre solo qualcuno ha superato le difficoltà di approvvigionamento, iniziando a produrre in proprio. Sul fronte occupazionale – sottolinea Stasi – una buona parte delle imprese ha fatto ricorso a cassa integrazione, ammortizzatori sociali e strumenti di sostegno d’emergenza. Tutto questo è successo soprattutto nella prima fase della pandemia che si è protratta per alcuni mesi. Poi, però, le aziende salentine hanno saputo reagire, migliorando le performance di risultato. A dirla tutta, chiudere un’impresa avrebbe significato perdere il diritto alle diverse forme di sussidio, bonus, ristori, contributi e finanziamenti di cui una parte a fondo perduto, rivolti a beneficio di ditte individuali, lavoratori autonomi, liberi professionisti, società di persone e di capitali, cooperative e consorzi. Parallelamente, la domanda di prestiti delle imprese è aumentata per effetto delle esigenze di liquidità consequenziali al fermo delle attività e favorita anche dalle condizioni più vantaggiose previste dalle norme sul costo dei finanziamenti. Dall’analisi complessiva – rileva Stasi – emergono diversi fattori che possono aver concorso alla formazione di questi risultati, a partire dal decreto “Cura Italia” che prevedeva un’iniezione di liquidità per famiglie e imprese. Allo stesso modo, hanno contribuito al ristagno del denaro sui conti correnti anche il rinvio delle tasse, lo stop alle cartelle fiscali e tributarie, le moratorie che hanno bloccato milioni di euro di crediti e i piani di ammortamento, nonché i prestiti garantiti erogati attraverso il “Fondo di garanzia per le Pmi”. Sotto la lente di ingrandimento – chiosa Stasi – oltre alla raccolta diretta che comprende i depositi bancari e postali, c’è anche la raccolta indiretta, rappresentata dalle attività di investimento e di distribuzione di titoli, fondi comuni, prodotti assicurativi, svolta dalle banche locali e nazionali per conto terzi. Tale raccolta si suddivide in raccolta amministrata (custodia ed amministrazione dei titoli) e in raccolta gestita (gestioni patrimoniali e fondi comuni). Complessivamente, la raccolta indiretta è aumentata di 193 milioni di euro, considerati in base al «fair value», cioè al valore equivalente al prezzo di mercato».